Quando rivide i suoi genitori, tornato a casa nel giugno del ’45 dopo 13 mesi di prigionia nel campo di Flossenbürg in Bavaria, Giovanni disse subito loro di non toccarlo: prima ci sarebbe voluto un lungo bagno, un lavaggio approfondito a quel corpo pelle e ossa, 38 chili scarsi, perché non sapeva che malattie avrebbe potuto portarsi addosso, dopo tutto quel tempo con gli stessi abiti e soltanto un filo d’acqua gelata per mani e faccia. Poi un po’ di buon cibo casalingo, ma poco: non voleva urtare lo stomaco col pericolo del contraccolpo.
Nella sala del Consiglio comunale, questa mattina, di fronte alle tre classi delle medie della sezione a tempo prolungato, nel Giorno della Memoria, 70° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz, Giovanni Arnaudo finisce così il racconto della sua prigionia: laconico, preciso, sincero, cercando di risultare il cronista di una storia e non il protagonista di una tragedia.
Non vuole usare parole troppo crudeli e nemmeno farsi passare per l’eroe che non crede di essere.
Era stato fatto prigioniero dai tedeschi occupatori il 23 marzo del 1944, a soli 19 anni, catturato da civile a Busca durante un rastrellamento a scopo di rappresaglia, tenuto in ostaggio in città e a Cuneo per alcuni giorni poi mandato in Germania, prima a Dachau, dove venne schedato, poi in un campo di lavoro nei pressi di Norimberga e lì destinato come operaio in una grande fabbrica.
“Si viveva in baracche da sei persone, insieme a me belgi e francesi, più il nostro capo e secondino tedesco. Facevamo turni di 12 ore, una settimana dalle 6 alle 18 e l’altra dalle 18 alle sei, sei giorni alla settimana. Da magiare brodaglia di rape e un filone di pane al giorno da dividere fra noi sei: una lotta ad ogni spartizione”.
Ricorda un pensiero costante dall’arrivo all’incredula fine: non tornerò più a casa. E la fame, ricorda: un tormento. E la paura durante i bombardamenti: una pioggia di morte dalla quale potevano trovare un precario riparo in certe fosse scavate a cielo aperto: “Ad ogni colpo sperare che la bomba scoppiasse un po’ più in là…”.
Ed anche, nonostante tutto, un filo di riconoscenza al nemico: “Il nostro capo tedesco aveva i suoi pensieri, figli al fronte ed uno già morto in combattimento. Forse per questo ci usava una cortesia: consumare i suoi pasti un po’ più in là, nascosto da noi, che non potevamo avere il suo pane burro e marmellata”.
“Non posso dire di essere stato mai né picchiato nè maltrattato” risponde ai ragazzi che chiedono altri particolari. “La liberazione? Non ce ne siamo veramente accorti. Semplicemente, un giorno ci svegliamo e il nostro tedesco non c’è più, la fabbrica è vuota, possiamo andare dove vogliamo. Vado in stazione prendo treni. Arrivo alla frontiera italiana e mi faccio riconoscere da un partigiano che fa i controlli: Sei di Busca? - mi dice - io ho fatto il militare a Dronero. E, insieme ad una gran pacca sulla spalla, mi dà il lasciapassare, che mi servì pochi mesi dopo, quando la Patria, come immediato segno di “riconoscenza”, mi chiama a prestare servizio militare! Grazie a Dio potei dimostrare che la mia naia l’aveva già fatta, eccome”.
La Giornata della memoria è stata celebrata con l’organizzazione del presidente dell’Anpi Mario Berardo, presenti l’assessore Ezio Donadio, in rappresentanza del Sindaco e della Giunta, i Consiglieri comunali Giuseppe Perucca, Gianpiero Bianchi e Ugo Bottone, il vice-parroco don Matteo Monge e i rappresentanti dei Vigili de Fuoco volontari, della Croce Rossa comitato locale, della Protezione Civile comunale.