Il professore universitario Emanuele Costa e la ricecrcatrice Alessandra Marengo, entrambi dell’Università di Torino, Dipartimento di Scienze della Terra, arrivano ad intervalli regolari negli ultimi tre anni sulla collina di Busca muniti di scarponi e zaini per portare avanti la loro ricerca sulle cave di alabastro calcareo, un unicum che porta ufficialmente il nome “di Busca”, usato nei secoli scorsi nell’architettura di pregio.
I due studiosi, che avevano tenuto nella scorsa primavera un dibattito in città dal titolo “Le antiche cave dell’alabastro di Busca, recupero turistico e opportunità scientifiche”, hanno svolto alcuni giorni fa un giro più largo sulla collina, su invito del sindaco, Marco Gallo, e dell’assessore Ezio Donadio.
Lo scopo è presentare a possibili finanziatori, ossia in primo luogo alle fondazioni bancarie, un progetto complessivo di studio e valorizzazione turistica, da redigere insieme con il Comune, che coinvolga non soltanto le cave, di per sé una meraviglia naturalistica, composte come sono in cinque suggestive gole (canyon) lunghe fino a un centinaio di metri ed alte anche una trentina, ma anche la collina circostante, con i ruderi del Castellaccio, dove sorse in epoca romana una torre e un “castrum” che a metà del XII secolo divenne dimora dei marchesi di Busca (del Vasto, poi Lancia dal soprannome di Manfredo) con, poco sotto, la cappella di Santo Stefano, fondata alle origini del cristianesimo locale tra i VI e X secolo e che ospita gli splendidi dipinti quattrocenteschi dei fratelli Biazaci da Busca, e il complesso dell’Eremo di Belmonte, risalente al ‘200, nato come certosa femminile, nei secoli divenuto centro devozionale e di pellegrinaggi poi, nell’800, adibito a villa signorile e arricchito dagli affreschi del Gonin.
Nel giro di poche centinaia di metri si trovano alcuni gioielli che vanno riscoperti sotto diversi aspetti geologico, naturalistico, paesaggistico, storico, artistico, religioso. Da qui passa anche il circuito dei sentieri della collina, da inserire negli itinerari di trekking provinciale e regionale.
Durante il recente sopralluogo i geologi si sono detti interessati a redigere un progetto in grado di ottenere un finanziamento per la continuazione del loro studio sulle cave e in particolare sul paleoclima e che contenga anche l’aspetto della possibile valorizzazione turistica complessiva del luogo, con riferimenti agli altri siti di interesse. “Valutiamo – ha detto Costa – di coinvolgere anche i nostri colleghi storici e archeologi del Dipartimento di Studi Storici , perché questo insieme di siti geologici, storici e turistici è nel suo complesso, una risorsa del territorio da valorizzare a fondo".
“Proprio perché ne siamo pienamente consci – sottolinea il sindaco Gallo -, siamo ben lieti di poter avvalerci della consulenza dei ricercatori in modo da riprendere in mano l’idea, già in parte avviata, di affermare le nostre tante bellezze e dare un’opportunità, anche economica, in più alla città. Non sono pochi, certamente, gli ostacoli a cominciare dai finanziamenti, ma noi ci crediamo”.
Le cave non sono aperte al pubblico
Occorre precisare che la zona delle cave sul colle dell’Eremo chiamata “la marmurera” si trova su un terreno privato il cui accesso al pubblico è sconsigliato perché privo delle opportune protezioni.
Completamente dismessa negli Anni Cinquanta del secolo scorso, la cava è stata recentemente usata da alpinisti e speleologi come luogo di esercitazioni.
Una eventuale futura apertura a visite guidate deve per forza far seguito ad un accordo con i privati proprietari del terreno, cui si sta lavorando, e ad un opportuno finanziamento per mettere in sicurezza i canyon ed aprire un sentiero protetto di accesso.
Almeno 50 mila anni fa
La formazione dell’alabastro di Busca, composto dalle concrezioni formatesiall’interno di un complesso di grotte carsiche; si presume da studi preliminari abbia un età compresa tra 50 mila e 350 mila anni , e il luogo è ritenuto adatto a studi e approfondimenti sul clima locale nel pleistocene superiore e medio, ultimi periodi glaciali.
L'alabastro di Busca
Dal XVII al XX secolo l'alabastro di Busca è stato usato nell'edilizia di pregio in tutta la regione ed anche fuori.
Nelle origini l’attività estrattiva avveniva a mano con l’utilizzo di scalpelli, picconi e mazze fatti a punta per non danneggiare la vena di marmo. Gli operai erano appesi a delle travi poste di traverso sulla sommità e venivano calati sino alla vena dove lavoravano legati a grosse corde. Soltanto dal Novecento si usarono candelotti di esplosivo, di bassa potenza per non danneggiare il marmo. Gli scarti erano utilizzati come materiale da costruzione e la parte calcarea era portata alla fornace di Santo Stefano per la cottura. Il marmo era trasportato su barroccini rinforzati, trainati da buoi, lungo la Colletta verso Rossana e Piasco o verso Dronero.
“L’alabastro buschese - ha scritto Mirella Lovisolo studiosa di storia religiosa locale - il cui colore caldo impreziosisce la struttura, era molto ricercato in Piemonte e fuori Piemonte nell’arredamento di case private, strutture e suppellettili decorative, camini, ma, soprattutto, negli altari delle chiese, come quello della parrocchia e nella balaustra della chiesa della Santissima Trinità di Busca, che è stata realizzata in blocchetti dello stesso marmo di una particolare venatura che riproduce il legno di noce. Troviamo l’alabastro di Busca anche nella Basilica di Superga a Torino, nella cripta delle tombe dei Savoia, in particolare nella tomba del re Carlo Alberto”.
Rivestite di alabastro di Busca sono anche le dodici imponenti colonne interne della Chiesa di San Filippo Neri in Torino, il piu’ grande edificio di culto della città.